venerdì 24 settembre 2010

La libraia di Orvieto di Valentina Pattavina

La trama è un po' scontata. La storia anche. La narrazione piatta e la descrizione dei personaggi idealista e non verosimile.
Sembra più un desiderio che una storia. C'è un conflitto scialbo.
Insomma una delusione.
Speravo che almeno ci fossero delle belle "foto letterarie" su Orvieto, invece niente, perchè dà per scontato che la si conosca benissimo la città e comunque il bello delle descrizioni letterarie è il "punto di vista" e la trasmissione emozionale.
Il finale poi... dire che fosse scontato è dir poco.

Se non avete di meglio da fare leggetelo. Ma in fretta!


Dalla quarta di copertina: "Matilde, una quarantenne romana solitaria e dall'animo ferito, si reca a Orvieto, città antica e bellissima, abbarbicata su una rocca giallastra di tufo, per cercare rifugio. Viene accolta da una comunità semplice e compatta, da un gruppo variegato ed eterogeneo di persone le cui esistenze si intrecciano a formare una catena indissolubile. Al centro della vita di Matilde ci sono da sempre i libri, e adesso anche la libreria in cui le offrono lavoro, per metà antiquaria e per metà moderna. Le sue giornate si dipanano secondo ritmi lenti, a piedi o in sella all'inseparabile bicicletta, alla continua scoperta di scorci della città e dell'animo umano. Gli eventi e i passaggi di tempo sono scanditi dalle sue letture, come se tra le righe di un racconto o i versi di una poesia si nascondesse il mistero del suo dolore, i suoi bubboni mai risolti. Ma anche Orvieto ha i suoi segreti, celati nelle case, nelle viscere dei pozzi, nei boschi di castagni che la circondano. Sarà un castagno millenario e maestoso ad aprire e chiudere la storia, a mostrarci il corpo di un impiccato appeso a uno dei suoi rami, in una cornice oscura e dai contorni imperscrutabili; un fatto accaduto dieci anni prima e ormai dimenticato, che torna alla ribalta per un caso fortuito e condizionerà pesantemente le sorti dell'intera comunità."



Pattavina V., La libraia di Orvieto, Fanucci 2010

giovedì 16 settembre 2010

La lunga estate calda del commissario Charitos di Petros Markaris

Un romanzo molto gradevole e soprattutto molto etnico. Mediterraneo. Si intravedono molti aspetti della vita in Grecia e dei greci. Aneddoti che a volte sfociano nel luogo comune.

La trama è sempre azzeccata e la forza della storia anche.

Proverbiale l'affermazione del commissario proprio sui greci: "Chiedi a dieci greci di fare una cosa. Nove di essi ti diranno subito che è impossibile, per poi inseguirti quando stai per andartene"

Non leggetelo in traghetto!



Dalla quarta di copertina: "Quando un gruppo di nazionalisti greci si impossessa di un traghetto con trecento passeggeri a bordo, il commissario Charitos capisce subito che non sarà un caso come gli altri: su quella nave c'è sua figlia Katrina. Inizia così un'indagine che metterà con le spalle al muro il poliziotto che ama dire di sé "non sono un Rambo, ma un greco complessato", ma questa volta dovrà stare a guardare impotente mentre l'indagine è affidata alla squadra antiterrorismo. Un intrigo di crimine, politica e mass media rivela un'Atene tentacolare e piena di insidie, in cui Charìtos si muove con la consueta sagacia e ironia, ma alla ricerca del filo rosso che leghi tra loro i delitti che insanguinano le notti in città. Ancora una volta, le misteriose atmosfere noir della capitale greca fanno da sfondo a un giallo avvincente, dal ritmo serrato"

Markaris P., La lunga estate calda del commissario Charitos, Bompiani 2009

mercoledì 15 settembre 2010

Prendersi cura di se stessi di Antonio G. Balistreri

Continua il dibattito intorno alla pratica filosofica. Per capire fondamentalmente se davvero la pratica filosofica possa aiutare ad una riflessione esistenziale o meno. Ma se così fosse, perchè l'esigenza di specializzarla? Non dovrebbero filosofeggiare tutti, comunque, a prescindere? Non era, di fatto una pratica comune a tutti nell'antichità? C'è forse bisogno di "patologizzare" il disagio per giustificare un intervento specialistico?



Dalla quarta di copertina: "Questo libro si basa su tre argomenti tra loro strettamente connessi. Presenta un'idea di filosofia, un'idea della cura e un'idea dell'uomo. L'assunto di partenza è che la cura è parte costitutiva dell'uomo e che la filosofia è la forma della cura. In sostanza vede l'uomo come un essere bisognoso di cura e la filosofia stessa come cura. Se "cura" si può dire con molti significati, uno in particolare qui emerge con forza: quello della filosofia come terapeutica dell'esistenza. Il recupero attuale di una dimensione pratica della filosofia, e del suo ruolo terapeutico, passa attraverso il prendersi cura dell'esistenza in modo da affrontare i mali che le sono connaturati e da evitare o superare quelli che dipendono da noi. "Una medicina dell'anima diceva Cicerone - esiste di certo, ed è la filosofia"

Balistreri A.G., Prendersi cura di se stessi. Filosofia come terapeutica della condizione umana, Apogeo 2006

giovedì 9 settembre 2010

Il razzista totalitario. Evola e la leggenda dell'antisemitismo spirituale di Gianni Scipione Rossi

Questo piccolo e sobrio libro è molto interessante, anche per capire come un personaggio così controverso, abbia potuto affascinare generazioni di persone che sono entrate nella sfera "dannata" dell'estremismo violento degli anni '60 e '70. Il merito di questo saggio risiede principalmente nel fatto che viene visto con gli occhi critici di uno di destra, certamente non estremista, ma comunque più vicino di altri a quell'area di riferimento. Le sue critiche quindi sono scevre da qualsiasi semplificazione di parte. E che critiche! Piuttosto feroci e demolenti, non tanto dell'uomo Evola, quanto del "mito Evola".
L'introduzione poi è molto bella, perchè l'autore descrive parte della propria esperienza giovanile.
Si legge molto bene e lo consiglio vivamente.


Dalla quarta di copertina: "A più di trent'anni dalla morte, Julius Evola è ancora un punto di riferimento ideologico per il mondo della destra radicale. Resistono il suo mito di filosofo antimoderno e la leggenda di un suo razzismo innocuo perché "spirituale". Ma ha un senso distinguere il razzismo "spirituale" dal razzismo biologico? Fornire al razzismo/antisemitismo motivazioni "spirituali" modifica la sostanza del pregiudizio? Le teorie di Julius Evola sono realmente solo "spirituali" oppure sono soltanto un tentativo non riuscito di edulcorare la sostanza del razzismo/antisemitismo? Per Evola non si può parlare di una "parentesi" razzista, ma di un razzismo radicale e persistente che il pensatore tradizionalista mette al servizio della svolta mussoliniana, anche a costo di adattarne i contenuti alle esigenze politiche del fascismo, senza mai criticare le leggi razziali, se non perché applicate in modo troppo moderato a causa delle "discriminazioni". L'evoliana "razza dello spirito" non sfugge al determinismo biologico e anzi si risolve in un razzismo totalitario, più esigente, che differisce da quello del "Manifesto della razza" solo per la definizione di quella italiana come razza "ario-romana" piuttosto che "ario-nordica""

Dalla recensione de L'INDICE di Francesco Germinario: "A destra il libro è passato inosservato, ovvero ha avuto qualche recensione critica. Et pour cause… L'autore, un intellettuale organico della destra di An, propone di relegare in soffitta l'autore più celebrato dell'area. Nelle prime pagine, Rossi confessa di non avere subìto in gioventù – il riferimento è alla prima metà degli anni settanta – l'influenza del pensiero evoliano, essendo legato a una visione più pragmatica e meno ideologica della destra. In ogni caso, non si governa con Evola; così Rossi propone la sua Fiuggi culturale: "Il problema è quanto il suo catastrofismo apocalittico – quel suo torcicollo metastorico – sia compatibile con una destra moderna e modernizzatrice, politicamente riformista e non reazionaria, pragmatica e non ideologica". Ben detto. C'è un secondo motivo che rende il saggio interessante. Per decretare l'abbandono di Evola, Rossi affonda il coltello nella parte più delicata – non per la storiografia, ma per gli evolomani – del corpus teorico-politico evoliano, il suo razzismo, che a destra hanno reso sempre periferico. Insomma, sembra suggerire Rossi alla destra, Evola non è presentabile perché razzista. Del resto, Rossi considera appunto una "leggenda", come recita il sottotitolo, il razzismo dello spirito. Questo mira non al superameto dell'impostazione biologica, bensi alla sua "integrazione". Il che significa che non era un razzismo esattamente contrario a quello nazista, come hanno sempre preteso i suoi estimatori, ma "più raffinato ed efficace, nel quale sono malcelate – dietro fumogeni lessicali – le suggestioni della concezione della razza in voga all'epoca del romanticismo e del darwinismo sociale". Anche qui ben detto. Abbiamo citato dal sottotitolo; ma forse migliore è il titolo: quello di Evola – proprio per le sue pretese spiritualiste – fu un razzismo totalitario; come, è il caso di aggiungere, qualsiasi posizione antisemita"

Scipione Rossi G., Il razzista totalitario. Evola e la leggenda dell'antisemitismo spirituale, Rubbettino 2008